Il vento forte e sprezzante aveva deciso di rilassarsi solamente verso le tre del mattino, troppo tardi per iniziare ad arrampicarsi su per la lastra di parete Nord del Gran Zebrù. Troppo rischioso già per due persone; per un solitario ancora di più.
Doveva partire senza vento a mezzanotte, per essere sicuro che il freddo della notte non lanciasse su di lui ghiaccio, neve e roccia. E quindi oggi si doveva aspettare al riparo in totale pazienza.
Si sa che quando si è fermi fisicamente, si ha tempo per pensare, proprio quello che il solitario vuole sempre evitare in montagna. Il pensare è un compagno scomodo e lui non lo vuole lì in montagna, dove il sole è freddo, ma ti cuoce la pelle del naso e del viso, dove dopo tanti anni tutte le procedure e le manovre vengono prodotte in automatico, dove già al primo sguardo si sa dove mettere e dove non mettere il piede, dove con un bagliore d’intuito si riesce a percepire la distanza tra un appiglio e l’altro, tra una sosta e l’altra, tra un respiro e l’altro.
Perché era lì? Era al sicuro dalle rocce, ma forse non abbastanza? Forse doveva tornare al rifugio Città di Milano per essere totalmente al sicuro, senza stare lì tutto il giorno e rischiare per niente?
Le incertezze del pensiero. Da dove nascevano? Forse da troppi ripensamenti e cose non fatte nel passato. Presumo che i più grandi ripensamenti non riguardino i soldi, le occasioni lievemente mancate, non riguardino nemmeno la montagna e quindi nemmeno l’alpinismo. I più grandi ripensamenti e i più grandi morsi sulle labbra riguardano l’amore. E lui, il solitario per scelta, ora era attaccato ad un chiodo nel suo bivacco improvvisato: a fare? Cosa lo portava a rischiare così tanto per una via e per una cima, se poi, tornato a casa, non avesse trovato ciò che più desiderava? Il bacio più caldo del camino acceso. Non una qualsiasi, lei.
A quei pensieri tutto cede, e anche il più solitario rivede la propria scelta. E lui, che grazie all’amore per la montagna negli anni era riuscito a conoscere se stesso, ora aveva deciso di chiudere. Tale amore non poteva dargli quello che stava desiderando in quel medesimo momento. Non poteva dargli la conoscenza di se stesso nel momento della condivisione e della quotidianità, quella bella e incantevole. La vita condivisa.
E allora via. La mente iniziava a funzionare come un computer: alzati, raccogli tutto, metti dentro la soletta agli scarponi, tira fuori i ramponi, torcia frontale, tira fuori dei chiodi da roccia e ghiaccio per sicurezza, cordini e andiamo via di qui. Forse si era dimenticato di prestare attenzione ai colatoi, era sì notte, ma qualche volta un masso in equilibrio per tutto il giorno, decide di cadere nel momento meno idoneo, e così fu. Soltanto che il solitario quella notte era diventato un solitario occasionale e non fu né fato, né fortuna a salvarlo, ma la propria coscienza, il proprio essere. Si fermò ad ammirare per l’ultima volta la parete Nord del Gran Zebrù, con occhi lucidi e con una forte emozione nel petto. Presumo che non si sia neanche accorto del masso che lo sfiorò di qualche centimetro; dandogli le spalle nemmeno lo vide. Si girò e accese la pila frontale e iniziò la discesa. Cosa fosse stato per lui l’alpinismo lo aveva ben chiaro; aveva iniziato con molta rabbia e volontà di riscatto, passando poi a passione e amore. Cosa fosse ora proprio non lo sapeva? Forse non bisognava pensarci più di tanto, ora gli bastava solo essere, agire e amare.
di Ermanno Gelain
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