Henry Miller, Plexus.
Henry Miller. Mi ricordo quando lo incontrai per la prima volta. Lo vidi su uno scaffale in mansarda, sommerso di polvere e quasi invisibile. Era un libro. Era il Tropico del Capricorno. Da tempo mi affascinava quel titolo. Mi immaginavo costellazioni, pianeti e lo spazio nero. Non so per quale assurdo motivo. Che bella edizione quella della Feltrinelli. Nella prima di copertina: titolo, autore, casa editrice. Lettere graziate rosso-arancio fisse sul neutro fondo viola. Sono sicuro che quel libro è stato comprato da mia madre semplicemente per il titolo. Lei, nella sua ignoranza ossessiva vedeva riferimento ai segni zodiacali da cui era condizionata. Di conseguenza vedeva un esplicito riferimento a suo figlio. Io sono capricorno e sono sicuro che non lesse più di dieci pagine, visto che, già la prima smentisce qualsiasi ipotesi di essere un libro riferito su tale argomento. Strana fatalità. Strane coincidenze. Ma attraverso questa ridicola alchimia ho scoperto lo scrittore che oggi ritengo essere tra quelli che mi appartengono di più. Ora sto leggendo il secondo volume della trilogia "La crocifissione in rosa", Plexus (1952) e ci sono alcuni passaggi lunghi e forse noiosi. Ma alcune pagine meritano davvero.
Henry Miller, Plexus, traduzione Henry Furst, Mondadori, I edizione Oscar narratori del Novecento (ora Oscar scrittori moderni) luglio 1992, ristampa 7 - 2011.
"[..] Riflessioni di questo ordine affioravano sempre quando uscivo per sgranchirmi le gambe. A poca distanza dalla casa di Stanley si stendeva un mondo apparentanti sotto molti aspetti a quello che avevo conosciuto da ragazzo. Lo attraversava un canale di nero inchiostro le cui acque stagnanti puzzavano come diecimila cavalli morti. Ma intorno al canale c'erano vicoli tortuosi, turbinanti strade ancora lastricate di ciottoli, coi marciapiedi logori fiancheggianti da piccoli tuguri ingombri di imposte scardinate, che a distanza davano l'impressione di enormi lettere ebraiche. Mobili, cianfrusaglie inservibili, strumenti di lavoro materiale di ogni specie coprivano il suolo. Frangia del mondo organizzato.
Ogni volta che mi avvicinavo ai confini di questo mondo lillipuziano, tornavo bambino di dieci anni. i miei sensi erano più acuti, la mia memoria più visiva, la mia fame più intensa. Potevo tenere conversazione con l'io che ero divenuto. Chi era l'io che cercava e fiutava ed esplorava, non lo sapevo. Un io interlocutorio, senza dubbio. Un io subordinato da un'altra corte di giustizia.
In questa arena superliminare, Stanley si addossava sempre una parte amabile.Era l'invisibile compagno al quale confidavo quei pensieri larvati che sfuggono alla parola. Immigrato, orfano, derelitto: questi i suoi tre elementi. Noi ci comprendevamo, perché eravamo perfettamente l'opposto l'uno dell'altro. Quel che ambiva, glielo davo regolarmente; quello di cui avevo fame, me lo portava col suo becco da uccello da preda. Noi si nuotava, come pesci siamesi, alla superficie glauca del lago d'infanzia. Non si conosceva il nostro Protettore; si godeva della nostra libertà immaginata.
Quel che mi interessava da bambino, quel che mi affascina ancora oggi, è lo splendore e il miracolo della fioritura.
Ci sono nell'infanzia giorni dolci e riposanti che ci permettono, forse per via di una grande lentezza del tempo, di penetrare in un mondo che sonnecchia. non è il mondo degli animali nè il mondo delle pietre, dei minerali, degli oggetti. Il mondo inanimato in germoglio…
Con lo sguardo al rallentatore dell'infanzia, si osserva, palpitando, questo latente dominio della vita che lascia percepire a poco a poco il battito del suo polso. Si acquista coscienza dei suoi refili invisibili che emanano perpetuamente dalle parti più lontane del cosmo, irradiati del microcosmo non meno dal macrocosmo.
«In alto come in basso.» In un batter d'occhio, siamo divorziati dal mondo illusorio della realtà materiale; a ogni passo, ci troviamo quadrivio di queste irradiazioni concentriche, vera sostanza d'una realtà la quale abbraccia tutto e tutto imbeve. La morte non ha senso. Tutto è mutamento, vibrazione, creazione e rinnovata creazione. Il canto del mondo, registrato in ogni particella di questa speciosa sostanza chiamata materia, scaturisce in un'ineffabile armonia che filtra attraverso i sensi e sveglia l'essere angelico dormente nella conchiglia della creatura fisica detta uomo. Appena l'angelo ha assunto il potere, l'essere fisico fiorisce. In tutti i domini avviene una persistente e calma fioritura.
Perché gli angeli, che noi associamo scioccamente ai vasti spazi interstellari, amano tutto quel che è mignon?
Appena giungo alle sponde del canale, dove mi attende il mio mondo in miniatura, l'angelo mi prende in custodia. Non scruto più il mondo: il mondo è dentro di me. Lo vedo chiaramente con gli occhi chiusi, come con gli occhi aperti. Incantato, non magia. Abdicazione, e felicità che accompagna l'abdicazione. Ciò che era dilapidazione, decadenza, sordidezza, è tramutato. L'occhio microscopico dell'angelo vede le parti infinite che compongo l'insieme divino: l'occhio telescopico dell'angelo vede soltanto la totalità, che è perfetta. Nella scia dell'angelo, ci sono universi da contemplare: la dimensione non significa nulla.
Quando l'uomo, col suo lamentevole senso della relatività, guarda nel telescopio e si meraviglia dell'immensità, guarda nel telescopio e si meraviglia dell'immensità della creazione, intende confessare che è riuscito a ridurre l'illimitato al limitato. [..] La strada non ha né principio né fine: è un sgomento staccato che galleggia in un'aura sfasata, e completo in se stesso. Una parte vibrante del tutto infinito. Sebbene non vi sia nessuna attività in questa strada, essa non è mai vuota o deserta. Infatti, è la strada più viva che io conosca. È viva di ricordi, come un boschetto segreto in cui pullulano sciami di sopiti invisibili. Non posso dire che io cammini per questa strada, e nemmeno che io vi scivoli. La strada mi investe. Io ne sono divorato. Forse soltanto nel mondo degli insetti ci sono sensazioni pari a questa forma straziante di felicità. Mangiare è delizioso, ma essere mangiato è una festa che supera ogni descrizione. Forse è un'altra, più stravagante forma di unione col mondo esteriore. Una specie di comunione a rovescio."
Henry Miller, Plexus. Da pag. 341 a 346.
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