giovedì 19 dicembre 2013

Immaginando un colloquio



“Herr Hermann-o?”
“Sì. Buon giorno, un piacere incontrarla.”
“Ah..buon giorno”, “ mi piacerebbe prima spiekarle bene la posizione aperta… customer service… Kundenbetreuung. Mi segue vero?”. Si alza, io mi alzo. “Ah… simpatici i veronesi. Nein. Non letteralmente”.
“Dove ero rimasto: Kundenbetreuung. Mmm. Come si dice auf italiano”.
“Servizio clienti”.
“Cosa ha detto?”.
“Servizio clienti…”.
“Ahhh…  grandioso! S E R V I Z I E N… K L I E N D I”.
“ Servizio clienti”.
“Ke pronuncia strana ke ha. Woher dove è Lei?”.
“ Sono di Pescantina, provincia di Verona”.
“Pianura. Italia”.
“Diciamo che è vicinissima alle montagne della Lessinia e alla Valpolicella”, sorrido.
“Vapolicela?” faccia stupita, coronata da baffi biondo cenere e riporto in tinta.
“Valpolicella. Famosa per il vino, uno tra i tanti, l’Amarone. Dai mettiamoci dentro anche il Recioto”.
“Gewurztraminer?”.
“No. Più in là c’è il Soave. Ma nessun Traminer”.
“Alora mi sembra ke non sia bel posto”.
“Beh a dir la verità è molto affascinante e…”.
“Herr Hermann, non cerchi di convincermi!. Nach Vapolicel non vengo!”.
“Ermanno”
“Ermanno? Chi è?”
“No. Lei ha detto Hermann, in verità mi chiamo Ermanno”
“Dov’è la potenza nel Namen Ermanno?”, “Le consiglio di andare aanagrafe e kambiare in Hermann”, sputa tabacco da masticare nella tinozza metallica. Si sente un tick sonoro. Non mi ero accorto che stesse masticando tabacco e non avevo notato la tinozza. Lo guardo stupito.
“Le stavo spiegando di ruolo in SERVIZIEN KUNDEN… Che nome krandioso!”, “Ha studiato?”
“Sì, ho finito l’università. Indirizzo lingue ed economia. Inglese e tedesco e…”
“Si studia ankora inglese?!?”
“Beh. Certamente, è la prima lingua. Direi quasi essenziale”.
“Mmm. Kwesta affermazione mi fa penzare. Lei lo penza davero?”.
“Scusi?”
“Fa bene ad avere dei dubi. Ank’io se venissi da Valcela li avrei”.
“Valpolicella”.
“Non insizta!”
“Come?”
“Non insizta con Vacela?”.
“Eh…”, non capisco più niente. Devo cambiare discorso. “Eh… mi spiegava del servizio clienti. Ho letto sull’annuncio: assistenza pre e post vendita. Di cosa si tratta principalmente? Quali sono i ruoli della posizione?”
“Lei mi sembra furbo?”, “le piacciono le bionde?”, “Dalla sua risposta potrò kapire molto”.
“Eh….” Merda, sono fottuto.


“Alora?”
“Eh…  Con bionde si riferisce alla birra?”
“Ah..”. Tick del tabacco nella tinozza. “Zi vede ke ha studiato?”. “No. Mi riferisco a Frau. Donna bionda, le piace?”
“Mah… A dir la verità mi indirizzerei più sulle more, ma i miei gusti corrono con la mia esperienza. Certamente posso ricredermi”.
“Fa bene. Le more non avere mercato!”.
“In che senso non hanno mercato?”.
“Ha fatto l’università di tre anni?”.
“Sì, la triennale!”.
“Ekko, kwesto l’avrebbe capito se avesse anke la Spezialisierung. Non facci domande!”.
“Faccia”.
A questo punto lui mi guarda, io lo guardo. Il disprezzo gli corre dal lato sinistro della bocca fino a quello destro. Gli occhi ghiaccio parlano: “Cosa avere la mia faccia?”.
“Nooo. Mi riferivo al congiuntivo della sua proposizione: non faccia domande!”.
“La triennale??? Mmm. Lei non me la racconta tutta”.
“Le giuro. La triennale!”.
“E come fa a sapere certe cose?”.
“Che cose?”.
“Obsluga klienta!”
L’impossibilità di capire con interlocutori ostili di lingua diversa è la peggior cosa che possa capitare. E ora cosa sta dicendo?
“Scusi, non la seguo”.
“Ma Lei non ha fatto lingue?”
“Sì, inglese e tedesco”.
“Ah.  De facto kwesto è polako.  Polnisch! Verstanden?”, “Ha perso tempo con una lingua inutile. Cosa poteva fare di peggio?”.
“Eee..Mi diceva dei ruoli inerenti al customer service,  pre e post-vendita. Ecco… non ho capito molto a riguardo… ad esempio: si parla di clienti finali oppure negozi al dettaglio?”.
“Mi ha detto che è di Cella Lei…”
“Sì, Val po li cella”.
“Sembrate persone furbe. I ruoli sono kwelli ke le ho spiegato. Dann… Poi ci sono picole e kwotidiane mansioni del suo cruppo. Siete tanti, giovani e forti“.
“No. Forse mi sono perso qualcosa, ma non mi ha spiegato nessun ruolo. Non abbiamo ancora affrontato l’argomento”.
“Le picole e kwotidiane mansioni. È pronto?”.
“Sì. Va bene. Mi dica le piccole e quotidiane mansioni”.
“Ahahah. Il suo acento. Che comico. Parlate tutti così in Italien? Comunkwe. Vede la montagna fuori dalla mia finestra?  Der Berg?”.
“Quella più alta? Innevata?”, “Stupenda”.
“Che dramma la neve. Presumo che sarà d’accordo con me che bisogna toglierla. La montagna deve essere pulita!” Tick.
“Vuole togliere la neve dalla montagna?”.
“Kwesto è un suo compito”.
“Mi sta prendendo per il culo?”.
Dalla montagna prescelta scende un fragore di valanga.
“Essere fortunato. È venuta un po’ giù da sola”, “Mi dispiace vedere ke ha tutte kweste resistenze”.
“Con tutto il rispetto, non riesco a seguirla. Cosa c’entra la neve della montagna con il lavoro di customer service?”.
“Le bionde del suo cruppo non ribattono e sono forti. Kapisce forti? Penzi che una di loro è kozì forte ke non sente le sberle. Io e Friedrich ci abbiamo provato. Niente. Con i bikieri della Bier... ach.. con i bikieri già sente kwalcosa… Ma che forza! Immagini koza può venire fuori dall’unione di Lei e Walburga. Eredi forti! Ci penzi?”
Una mosca stava volando nella stanza. “Eko. Un altro compito del SERVIZIENSKLIENTKUNDEN è ke kweste kose non devono succedere!”.
“A cosa si riferisce?”.
“La vede la mokka?”.
“La mosca. Cos’ha?”.
“Non deve essere kwa dentro!”.
“Guardi. Mi dispiace averle fatto perder tempo. Presumo che troverà un’altra persona più qualificata di me per questa posizione”.
“Si segga Herr Hermann-o Ghe… ghe… GHE –LA-IN?”.
“Gelain”.
“Gelain? Ach… Che cognome di origini ambigue? Di dove è Lei?”
“Pescantina”.
“No! Il cognome? Non sarà mica uno di quei finti italiani?”.
Non ho mai amato domande sull’origine del mio cognome, semplicemente perché non ho mai avuto una risposta certa, tuttavia rispondo: “Origine francese!”.
Scende un’altra valanga. Un tick potentissimo. “La posizione non è aperta per i francesi!”
“Ma non sono francese. Origini del cognome francesi, ma non sono francese”.
“ Sa dirmi koz’è lo ius sanguinis?”.
“OUI”.

 di Ermanno Gelain
(Apprezzando la cultura e la lingua tedesca, spero di non aver offeso nessun utilizzando la lingua come veicolo di ironia)
                                                                                                                                                 


giovedì 31 ottobre 2013

Insegnamenti.

da Il filo unisce, 

Tutto era accaduto cento metri prima di uscire da quella che era stata un’arrampicata faticosa, lunga e stressante
Gli imprevisti non erano mancati. A Sean erano volati via dalle mani appigli apparentemente solidi, causando cadute di metri e metri ed alla sua compagna l’inconveniente di dover sopportare l’ira che si scatenava dopo ogni volo. Quel giorno la roccia sembrava voler spingere la coppia giù, verso la base. Forse un modo per esprimere la volontà di non voler esser scalata, di non voler esser sfiorata, ma all'uomo non interessava e non dava seguito ai messaggi. Voleva arrivare in cima. La roccia e Clare dovevano fare silenzio.
Ma ora, in quei cento metri prima di terminare la parete qualcosa era successo. Recuperando Clare, l’anello di sosta del terrazzino aveva ceduto, staccandosi completamente dalla roccia. La mancanza di scarico del peso aveva catapultato Sean a testa in giù nel vuoto più totale, tenuto solamente da un chiodo piantato come ulteriore sicurezza, dopo aver visto le condizioni dell’anello arrugginito.

Immaginate un filo teso, così teso da produrre suono se mosso. Immaginate che esso non possa cadere nelle mani della sarta solamente grazie ad un piccolissimo ago conficcato nella stoffa. Immaginate l’instabilità di quell’unione con la vita e riportatela a Clare e Sean, i quali si trovavano agli estremi della corda, ambedue in aria a 1300 metri dal suolo sassoso.
Sean non sapeva cosa fare; la pressione della compagna lo stava sfibrando e gli impediva qualsiasi movimento. Come Clare, lui era troppo distante dalla roccia per potersi avvicinare, attaccare e affievolire il suono del filo.
Respirare voleva dire mandare giù bolle d’aria caldissima; gli occhi infiammati, lucidi e affondati nel panico incontrarono quelli di Clare, i quali capivano bene la situazione, ma erano tutt’altro che impauriti.
Nel profondo azzurro, ricamato da sottili linee di bianco pizzo e verde muschio, c’era qualcosa che si esprimeva; qualcosa di immenso. Qualcosa che non agitava, ma calmava il respiro del suo compagno. Rapito, lui scavò sempre più a fondo, e scoprì che l’azzurro, il bianco e il verde in realtà si fondevano insieme, variando colore e forma. Si accorse di non riuscir più a definire il colore degli occhi. Tuttavia ciò non era importante e passava in secondo piano rispetto a quel qualcosa che aveva visto nel profondo. E quel Qualcosa prese ancora più potenza, quando gli occhi di lei si bagnarono e illuminati dal riflesso del coltello tagliarono il filo. L’estremo cadde nelle mani della sarta. Un brivido partì dalle spalle e fluì fino alle nuca dell’uomo.

Le pupille di lui rimandavano la figura della donna che stava volando giù. Precipitavano gli occhi, le labbra rosse e generose assieme ai capelli oro, aquiloni che si libravano in cielo. Quella donna, inarrivabile da tutti. Bellissima, intelligente, era stata per lui imbarazzo iniziale, conquista e stupore nel momento in cui disse: “Sì, esco con te, a patto che non mi porti ad arrampicare, perché ho paura”. Una promessa non mantenuta.
Quella donna che stava rispondendo alle leggi della gravità aveva rivoluzionato totalmente il suo modo di vivere, di porsi in relazione. Con Clare bisognava prima di tutto amarsi in maniera profonda.  Nessuna differenza tra sé e l’altro.

Libero dal peso, ora era in grado di risalire la corda, ma rimase immobile a testa in giù.
Il respiro ora era così profondo da ricoprire qualsiasi rumore di sottofondo. I suoi occhi sott'acqua cercavano di guardare le cime delle montagna innevate.
La luce riflessa nella neve distante luccicava nella mente dell’uomo salvo. In quel momento di bagliori e di riflessi il pianto iniziò e finì scorgendo il mare, il blu intenso.
Il blu intenso e il respiro simile all'andare e al tornare delle onde.
Lui grazie al sacrificio di lei era salvo. Ora doveva mettere in pratica da solo ciò che lei aveva insegnato.

Doveva risalire la corda.

                                                                                                                                        di Ermanno Gelain 

martedì 29 ottobre 2013

Alessandro Baricco


- Voi dovete essere Bartleboom.
Bartleboom, veramente, aspettava un'onda. O qualcosa del genere. Alzò lo sguardo e vide una donna, chiusa in un elegante mantello viola.
- Bartleboom, sì... professor Ismael Bartleboom.
- Avete perso qualcosa?
Bartleboom si rese conto che se ne era rimasto chino in avanti, ancora irrigidito nello scientifico profilo dello strumento ottico in cui si era tramutato. Si raddrizzò con tutta la naturalezza di cui fu capace. Pochissima.
- No. Sto lavorando.
- Lavorando?
- Sì, faccio... faccio delle ricerche, sapete, delle ricerche...
- Ah.
- Delle ricerche scientifiche, voglio dire...
- Scientifiche.
- Sì.
Silenzio. La donna si strinse nel suo mantello viola.
- Conchiglie, licheni, cose del genere?
- No, onde.
Così: onde. 
- Cioè... vedete lì, dove l'acqua arriva... sale sulla spiaggia poi si ferma... ecco, proprio quel punto, dove si ferma... dura proprio solo un attimo, guardate, ecco, ad esempio, lì... vedete che dura solo un attimo, poi sparisce, ma se uno riuscisse a fermare quell'attimo... quando l'acqua si ferma, proprio quel punto, quella curva... è quello che io studio. Dove l'acqua si ferma.
- E cosa c'è da studiare?
- Bé, è un punto importante... a volte non ci si fa caso, ma se ci pensate bene lì succede qualcosa di straordinario, di... straordinario.
- Veramente?
Bartleboom si sporse leggermente verso la donna. Si sarebbe detto che avesse un segreto da dire quando disse 
- Lì finisce il mare.
Il mare immenso, l'oceano mare, che infinito corre oltre ogni sguardo, l'immane mare onnipotente - c'è un luogo dove finisce, e un istante - l'immenso mare, un luogo piccolissimo e un istante da nulla. Questo, voleva dire Bartleboom. 

  
                                                                                                       Alessandro Barico, Oceano Mare. Pag. 32, 33

giovedì 8 agosto 2013

Il filo unisce.



Tutto era accaduto cento metri prima di uscire da quella che era stata un’arrampicata faticosa, lunga e stressante
Gli imprevisti non erano mancati. A Jean erano volati via dalle mani appigli apparentemente solidi, causando cadute di metri e metri e alla sua compagna l’inconveniente di dover sopportare l’ira che si scatenava dopo ogni volo. Quel giorno la roccia sembrava voler spingere la coppia giù, verso la base. Forse un modo per esprimere la volontà di non voler esser scalata, di non voler esser sfiorata, ma all’uomo non interessava e non dava seguito ai messaggi. Voleva arrivare in cima. La roccia e Clare dovevano fare silenzio.
Ma ora, in quei cento metri prima di terminare la parete qualcosa era successo. Recuperando Clare, l’anello di sosta del terrazzino aveva ceduto, staccandosi completamente dalla roccia. La mancanza di scarico del peso aveva catapultato Jean a testa in giù nel vuoto più totale, tenuto solamente da un chiodo piantato come ulteriore sicurezza, dopo aver visto le condizioni dell’anello arrugginito.

Immaginate un filo teso, così teso da produrre suono se mosso. Immaginate che esso non possa cadere nelle mani della sarta solamente grazie ad un piccolissimo ago conficcato nella stoffa. Immaginate l’instabilità di quell’unione con la vita e riportatela a Clare e Jean, i quali si trovavano agli estremi della corda, ambedue in aria a 1300 metri dal suolo sassoso.
Jean non sapeva cosa fare; la pressione della compagna lo stava sfibrando e gli impediva qualsiasi movimento. Come Clare, lui era troppo distante dalla roccia per potersi avvicinare, attaccare e affievolire il suono del filo.
Gli occhi infiammati, lucidi e affondati nel panico incontrarono quelli di Clare, i quali capivano bene la situazione, ma erano tutt’altro che impauriti. Nel profondo azzurro, ricamato da sottili linee di bianco pizzo e verde muschio, c’era qualcosa che si esprimeva; qualcosa di immenso, qualcosa che non agitava, ma calmava il respiro del suo compagno. Rapito, lui scavò sempre più nel profondo, e scoprì che l’azzurro, il bianco e il verde in realtà si fondevano insieme, variando colore e forma. Si accorse di non riuscir più a definire il colore degli occhi di Clare. Tuttavia non era importante e passava in secondo piano rispetto a quel qualcosa che aveva visto Jean nel profondo. E quel Qualcosa prese ancora più potenza, quando gli occhi di lei si bagnarono e illuminati dal riflesso del coltello tagliarono il filo. L’estremo cadde nelle mani della sarta.

Jean si svegliò di colpo e si ritrovò con la testa avvolta nel telo della tenda. Si abbassò e guardò subito alla sua sinistra. Clare era lì che lo guardava compassionevole. Senza perder tempo respirò e disse: “ Passami il tuo coltello!”
Clare “Ora prova a calmarti. Hai avuto un incubo?”.
Jean sorrise ed esclamò: “ Non ti sembra che sia ora di andare al mare?”.
  
                                                                                                                                     di Ermanno Gelain


sabato 20 luglio 2013

Tronchi di nidi cavi

Tronchi di nidi cavi, concavi. 
Cortecce ora bagnate
al freddo buio tra le montagne 
lacerate dai tuoni.
Una polvere s'insinua tra i fari nuovi
quelli che salvano le volpi,
quelli che avvisano le più avanti ore 
passate ad osservare le luci rosse.

Non trema nemmeno un istante
colpa delle campane che ci osservano,
sempre limpide, sempre lucide
come lacrime che piangono.


                    •

Dove ho camminato gioendo,
dove ho pascolato tra le mie sorelle,
ora il ricordo ricoperto dal cielo scuronero,
macchiato qua e la,
stritola l'anima.
Mai vorrei essere dove sono stato:
a raddrizzare l'erba incurvata,
a riattaccare i rami spezzati
a consolare i tronchi mutilati.

E quelle stelle alpine e,
quelle farfalle di rosso dipinte ora spente.
E quelle pigne sopra letti di formiche.
Fa paura l'erba nera e 
gli sguardi che non mi guardano 
ma che fanno intendere 
nessun inizio,
nessun addio.

di Umberto Salazar

giovedì 4 luglio 2013

Luce di tapparella

È nei miei ricordi, quelli più remoti e fecondi. È l’immagine più forte di me bambino, che si svegliava dopo il sonno profondo.  E nel lettino gli occhi si aprivano e riempivano. Le fessure della tapparella venivano accarezzate e passate da luce. Essa, d’arancia, prendeva forma, si intrecciava alla polvere volante e si mostrava perfetta e suadente. E girando il testino, il bambino la vedeva danzare sulla parete non più bianca. Quell'attimo  io, quel bambino, allora estasiante magia, ora la pace più profonda e piena d’amore.
 
                                                                                                                       di Ermanno Gelain

Mi immaginai in qualche posto


Mi immaginai là, seduto sul bianco e verde acqua treno, che scivolava dolce sulle rotaie. E dondolando lo zaino facevo brillare gli occhi sulla speziata aria dell'India. Rientrato poi nel vagone, non avevo caramelle, non avevo giocattoli per i bambini vivaci, ma sentivo il profumo della terra africana. Quell'intenso rosso aranciato da colorare per sempre la gomma delle scarpe. O le tieni o le butti via.
Ad un tratto mi immaginai l'impulso di scendere, posare il piede nella foresta selvaggia, una metropoli di alberi. Ma la perfetta solitudine e avventura immaginata si stava trasformando nella mia mente, diventando compagnia seducente. Quale aspettative di mangiare paesaggi e di baciare rose?
E in quel momento mi immaginai di aspettare il treno in una stazione remota dell'Alaska. Arrivò e le montagne mi salutarono con fragori di valanghe. Il freddo e bianco mi lasciarono, mi immaginai.
Venduto lo zaino ad un cinese incuriosito, mi sedetti e immaginai di non immaginare più. Mi accorsi dunque dell'eleganza dei miei vestiti, mi stupii dell'intensità dei miei talenti, condivisi il tempo e lo spazio con la donna di capelli neri. I suoi occhi di nero carbone, così tanto da non poter distinguere iride e pupilla. Tanto da non poter farsi domande. La sua pelle di sapor caffè-latte e la sua bocca di sapor fragola. Vestito di fiori di campagna.
Ritornai al mio corpo, chissà dove, lassù e capii che era ora di tornare giù. 


                                                                                                                    di Ermanno Gelain

mercoledì 3 luglio 2013

Zitto


Non ho visto aldilà dello specchio d'acqua
il grasso oblio, l'altro-mondo.
                 "Se credessi in Dio mi ucciderei adesso"









                             "Zitto". 




di Umberto Salazar

martedì 2 luglio 2013

Afferra questo mercurio, Edoardo Sanguineti.



afferra questo mercurio, questa fredda gengiva, questo miele, questa sfera
di vetro arido; misura attentamente la testa del nostro
bambino e non torcere adesso il suo piede
impercettibile:
nel tuo capezzolo devi ormai convertire
un prolungato continente di lampade, il fiato ossessivo dei giardini
critici, le pigre balene del ventre, le ortiche
e il vino, e la nausea e la ruggine;
perché ogni strada subito
vorrá corrergli incontro, un'ernia ombelicale incidere
il suo profilo di fumo, qualche ippopotamo donargli
i suoi denti di forfora e di fosforo nero:
evita il vento,
i luoghi affollati, i giocolieri, gli insetti;
e a sei mesi egli potrá raddoppiare il suo peso, vedere l'oca,
stringere la vestaglia, assistere alla caduta dei gravi;
strappalo dunque alla sua vita di alghe e di globuli, di piccoli nodi,
di indecisi lobi:
il suo gemito conquisterá le tue liquide ferite
e i suoi occhi di obliquo burro correggeranno questi secoli senza nome!

di Edoardo Sanguineti

Filò, Andrea Zanzotto



[..] e la poesía no l'è in gnessuna lengua
in nessun logo - fursi - o l'è 'l busnar del fugo
che 'l fa screpolar tute le fonde 
inte la gran laguna, inte la gran lacuna - 
la é 'l pie e 'l vódo della testa-tera
che tas, o zhigna e usma un pas pi in là
de quel che mai se podaràe dire, far nostro. 


e la poesia non è in nessuna lingua
in nessun luogo - forse o è il rugghiare del fuoco
che fa scricchiolare tutte le fondamenta
dentro la grande laguna, dentro la grande lacuna -,
è il pieno e il vuoto della testa-terra
che tace, o ammicca e fiuta un passo più oltre
di quel che mai potremmo dirci, far nostro.

da Filò, A. Zanzotto

venerdì 28 giugno 2013

Léon-Gontran Damas



















E gli zoccoli
delle bestie da soma
che in Europa martellano
l'alba ancora indecisa
richiamano a strana abnegazione
delle ceste ricolme che al mattino
ritmano alle Antille
le anche delle portatrici
in fila indiana.

E la strana abnegazione
delle ceste ricolme che al mattino
ritmano alla Antille
le anche delle portatrici
in fila indiana
richiama gli zoccoli
delle bestie da soma
che in Europa martellano
l'alba ancora indecisa.




Léon-Gontran Damas (né le 28 mars 1912 à Cayenne, mort le 22 janvier 1978 à Washington, DC), est un écrivain, poète et homme politique français. Léon-Gontran Damas était métis blanc, amérindien, noir.
Il est cofondateur du mouvement de la négritude avec Aimé Césaire et Léopold Sédar Senghor dans les années 1940. Grand amateur de jazz, il publia en 1937 Pigments, recueil de poèmes préfacé par Robert Desnos où il se révolte avec violence contre une certaine éducation créole d'inspiration bourgeoise qu'il voit comme une acculturation imposée. Un de ses grands thèmes est la honte de l'assimilation. Engagé dans la politique, il fut député de Guyane.
Il fit à Paris des études de droit puis, à l'École des langues orientales, de russe, de japonais et de baoulé.

Léon-Gontran Damas est né à Cayenne, dernier des cinq enfants de Ernest Damas (1866-?), mulâtre européen-africain, et de Marie Aline (1878-1913), métisse amérindienne-africaine originaire de Martinique. Une sœur jumelle, Gabrielle, née quelques minutes avant lui, mourut en bas âge. À la mort de sa mère, son père confia leurs cinq enfants à sa sœur Gabrielle Damas. En 1924, Léon-Gontran fut envoyé en Martinique pour ses études secondaires au Lycée Victor-Schoelcher ; c'est là qu'il rencontra Aimé Césaire qui allait être pendant longtemps son proche ami et collaborateur.
En 1929, il vint à Paris pour ses études supérieures. Il fréquenta le salon littéraire de Paulette Nardal. C'est là qu'il rencontra Léopold Sédar Senghor. En 1935, les trois jeunes gens publièrent le premier numéro de la revue littéraire L'Étudiant noir, fondatrice pour ce qui allait être appelé la négritude, mouvement littéraire et idéologique d'intellectuels noirs francophones rejetant la domination occidentale en matières politique, sociale et morale.
En 1937, Damas publia son premier livre de poésie, Pigments. Damas s'engagea dans l'Armée française durant la Seconde Guerre mondiale, et fut ensuite député de Guyane (1948-1951). À ce titre,il présida la Commission d’enquête parlementaire chargée, en 1950, d'enquêter sur les incidents survenus en Côte d'Ivoire et la répression coloniale (Rapport Damas, Journal Officiel, documents parlementaires. Assemblée nationale, n° 11348. [12). Ce rapport est une source bien connue des historiens.
Dans les années suivantes, il voyagea et donna des conférences un peu partout en Afrique, aux États-Unis, en Amérique latine et dans les Antilles. Il fut aussi l'un des rédacteurs de Présence africaine, important périodique d'études noires, et délégué auprès de l'UNESCO pour la Société Africaine de Culture.
En 1970, Damas vint à Washington, où il enseigna à l'université de Georgetown, puis devint professeur à l'Université Howard. Il y demeura jusqu'à son décès en janvier 1978. Il est enterré en Guyane.


da http://fr.wikipedia.org/wiki/Léon-Gontran_Damas






Eugenio Montale


















Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi; fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

da Ossi di seppia.




LA VITA

Nato a Genova nel 1896 da un’agiata famiglia della media borghesia.
Sempre indeciso sull’indirizzo da dare alla propria vita “pratica”, il poeta arriva fino ai 30 anni senza un lavoro fisso; nel 1927 finalmente venne assunto come redattore presso la casa editrice fiorentina Bemporad.
Dovette quindi trasferirsi a Firenze, dove nel 1929 venne nominato direttore della Biblioteca del Gabinetto Vieusseuxfino al 1938, quando fu allontanato dall’incarico perché si era sempre rifiutato di prendere la tessera  del Partito fascista.
Questi anni sono caratterizzati da una straordinaria intensità di rapporti umani e culturali. In questo periodo si situa anche l’inizio del rapporto affettivo con Drusilla Tanzi, che sarebbe divenuta ben presto la compagna e poi la moglie di Montale.
Dopo la Liberazione Montale partecipò (per gli affari culturali) al Comitato di liberazione nazionale e aderì, ma per poco, al Partito d’azione (unica e breve partecipazione attiva alla vita politica).
Nel 1948 si trasferisce a Milano, dove lavora come redattore del “Corriere della Sera”; l’attività giornalistica continua quasi fino alla morte, sopraggiunta nel 1981.
Gli ultimi anni sono prodighi di riconoscimenti nazionali (per esempio la nomina a senatore a vita nel 1967) e internazionali (ricordiamo, fra tutti, il premio Nobel assegnatogli nel 1975).



LE OPERE

L’itinerario poetico di Montale è segnato da un’evoluzione che dal sublime della prima stagione giunge all’abbassamento comico-prosastico dell’ultima fase.
Con una schematizzazione estrema possiamo individuare il tema fondamentale della poesia montaliana nell’insanabile crisi del rapporto fra l’uomo contemporaneo e il reale.
Il disagio, il “male di vivere”, è dunque il filo rosso che unisce, pur attraverso varietà di modi, toni, situazioni poetiche, la prima stagione, che ha inizio con la raccolta “Ossi di seppia”, all’ultima stagione.
La Raccolta d’Esordio: “Ossi di Seppia”
Ossi di seppia: la raccolta comprende testi elaborati tra il 1920 e il 1925 (con la sola eccezione di “Meriggiare pallido e assorto”, che risale al 1916), in parte già apparsi in rivista.
Questa la struttura della raccolta: fra la poesia di apertura (In Limine, “sulla soglia”, in latino) e quella di chiusura (Riviere) si collocano quattro sezioni intitolate Movimenti (tredici componimenti),Ossi di seppia ( ventidue), Mediterraneo (un poemetto in nove parti), Meriggi e Ombre (quindici componimenti).
La poesia degli Ossi è una poesia antieloquente e in negativo: non ha nessuna verità o certezza da rivelare, ma si limita a registrare la profonda angoscia del poeta, la sua “disarmonia” con il mondo, il suo “male di vivere”, appunto, che trova espressione in celebri metafore, quali camminare lungo un muro ”che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, essere imprigionati in una rete, essere legati da una catena; talvolta si intravede una possibilità di salvezza. Ma è una possibilità suggerita, vaga.
Montale non vuole e non può darci la formula risolutiva; nessuna certezza positiva, ma solo “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Gli Ossi di seppia che danno il titolo alla raccolta, e cioè le conchiglie di certi molluschi, presenze inaridite e ridotte al minimo, appaiono emblematici di questa poetica dello “scabro ed essenziale”.
I motivi che attraversano la raccolta sono :
  1. il paesaggio
  2. l’amore
  3. l’evasione, la fuga


IL LINGUAGGIO POETICO

Se la realtà osservata si rivela frantumata e sfuggente, il linguaggio poetico è al contrario, preciso ed esatto.
Ogni oggetto poetico è designato dalla parola con assoluta precisione, legato a un solo significato.
Essenziale e non ridondante è il lessico, e a tal fine Montale ricorre sia a termini tecnici che dialettali, che aulici.
La caratteristica preminente della lingua degli Ossi è la ricchezza lessicale: sono molti i vocaboli con un numero di occorrenze basso, talora veri e propri Hapax (cioè vocaboli che si presentano nell’opera una sola volta).



Modelli

Fondamentale è stato il contributo di D’Annunzio al costituirsi della tecnica metrica montaliana, soprattutto per l’uso degli sdruccioli, la rima ipermetra, l’assonanza. La metrica degli Ossi non è una metrica rivoluzionaria. I metri tradizionali sono frequenti, settenari, novenari, endecasillabi.
Oltre che della lezione dannunziana, gli Ossi risentono anche di altre molteplici letture:

  1. Il Dante della Commedia e quello delle rime petrose.
  2. Da Pascoli, Montale eredita non pochi usi a livello metrico e lessicale: motivi quali la presenza dei morti e l’ostilità della natura.
  3. Ma tracce lasciano nella sua poesia anche i simbolisti francesi, soprattutto Verlaine.

Seconda raccolta, “Le Occasioni”

Permane il motivo fondamentale della “disarmonia” e del dolore esistenziale, ma cambiano alcuni elementi: il paesaggio non solo non è più ligure ma toscano (il poeta si è trasferito nel frattempo a Firenze).
Se negli Ossi il poeta dialogava solo con il mare (tema principale della prima raccolta) o con un generico Tu, ora cerca interlocutori reali, concreti (ma per lo più fisicamente assenti); l’interlocutrice prediletta è una figura femminile.
Nell’opera di Montale la prima fase è negativa e distruttiva: egli non ritrova un oggetto nella cui realtà possa aver fiducia. La seconda fase è relativamente positiva.
Gli Ossi esprimono la consapevolezza del “male di vivere”, mentre nelle Occasioni domina la ricerca di ciò che può costituire un’eccezione alla negatività, all’assurdo del reale: la ricerca insomma del “fantasma che ti salva”, che è qui un “fantasma” femminile, quello di Clizia.
La valenza simbolica degli oggetti si accentua e si assolutizza.


Terza raccolta: “La Bufera e altro”

La situazione storica, esterna, che fa da sfondo alla nuova produzione poetica si è fatta intanto, e si va facendo, sempre più cupa: il regime dittatoriale si è inasprito e all’orizzonte si addensano minacciose nuvole di guerra, le stesse che dominano la terza raccolta.
A differenza degli Ossi e delle Occasioni, La bufera e altro appare una raccolta non unitaria ma varia per tempi di composizione, temi e intonazione poetica.
Il nucleo più unitario è certo il primo, quello di Finisterre: sono quindici poesie fortemente influenzate dalla congiuntura bellica.
Per la prima volta la storia entra con tragica violenza nella poesia montaliana: la seconda guerra mondiale diventa cupo sottofondo delle liriche di Finisterre.
La guerra non provoca una nuova visione della realtà da parte del poeta, ma semplicemente conferma e accentua il rapporto critico e disarmonico con la realtà, concepita come “assurda, irrazionale e ininterpretabile”.
Il tema dei morti, di parziale ascendenza pascoliana, ha grande spazio nella raccolta.
L’attenzione poetica di Montale rimane dunque legata saldamente alla permanente condizione umana, prima e più che agli eventi storici.
L’ispiratrice delle poesie di Finisterre è ancora Clizia, che riprende e accentua la sua connotazione metafisica orientata in senso religioso (si è detta ”Cristofora”, “portatrice di Cristo”, cioè colei che si fa mediatrice tra terra e cielo).
Nel dopoguerra compare un’altra figura femminile, assai diversa, che Montale stesso definisce ”molto terrestre” e immanente: èla Volpe, nella quale dobbiamo identificare la poetessa Maria Luisa Spaziani (con cui Montale ebbe una relazione).
In lei non è più riconoscibile alcuna salvezza, è piuttosto una sorta di “antibeatrice”.



La produzione degli ultimi decenni

Gli anni sessanta e settanta, costituiscono lo sfondo della seconda stagione poetica montaliana.
Dopo la seconda guerra mondiale e i primi difficili tempi della ricostruzione, lo sviluppo capitalistico e il progresso tecnologico danno vita a una società di massa a cui Montale guarda con un distacco aristocratico e nostalgico.
In questa crisi ideologica, il poeta, nel rimpianto dei vecchi valori che appaiono ormai irrimediabilmente perduti, rivolge alla sottocultura dominante uno sguardo scettico.
Il mondo che incontriamo in Satura, è ormai ridotto a detriti, a scorie, e il negativo è ancor più forte in quanto ormai dilagante.
Il titolo Satura, per ammissione dello stesso Montale, ha più significati:
  1. allude alla vena satirica che percorre la raccolta;
  2. e allude pure al sintagma latino satura lanx, che stava a indicare prima “ un piatto pieno di cibi diversi”;
  3. e poi anche un genere letterario caratterizzato dalla varietà di metri e di temi.
Delle quattro sezioni che comprendono la raccolta (Xenia I. Xenia II, Satura I, Satura II), le prime due costituiscono un piccolo canzoniere scritto in occasione della morte della moglie.
Il poeta rende omaggio alla moglie: compagna affezionata e discreta, rimasta finora quasi completamente assente. Xenia è termine latino che indica i doni fatti a un ospite nel momento in cui lascia la casa che lo ha ospitato.



Il rovesciamento linguistico

In questa nuova stagione poetica il linguaggio di Montale si trasforma, lo stile viene rovesciato: il lessico tende al basso, al prosastico, e può essere definito grosso modo un lessico quotidiano.
Lo stile si fa quello della conversazione quotidiana, antilirico.
All’abbassamento tematico e lessicale si oppone una gabbia metrica e ritmica tradizionale, raffinata, sorvegliatissima, con una predilezione per le forme estreme; i versi tendono ad essere o molto brevi o superiori all’endecasillabo.




da http://www.parafrasando.it/biografie/montale_eugenio.html

giovedì 27 giugno 2013

FUMI...


Diluviava fiori la foresta in lutto
il giorno che lui è andato via
in un gran ritmo di cose ferite.
E, lui partito, il suo ricordo fluttua
a fior della bruma dorata
che l'anima gelosa
dei vecchi cervi scorda
nella foresta dell'assorta loro gioventù.
Ed un pastore zufolava un'aria
che mai più fu riudita 
e lo sperso campano
delle capre sulla montagna
fu presto un lamento 
come la prece del vento sui pendii.

Étienne Léro

lunedì 17 giugno 2013

Calchi e ferri


Chi ha scalciato tra i sogni

in quei marciapiedi di rotaie arrugginite,

cumuli di vite finite sommerse in bianca polvere,
per l'ultimo addio, le spalle bagnate di lacrime. 


di Umberto Salazar

giovedì 13 giugno 2013

Il Respiro del lupo: Danza sulla frontiera

Parte 3 di Il Respiro del lupo

Danza sulla frontiera

Il ragazzo non aveva dormito molto. Aveva passato la maggior parte della notte con la mente soffocata, bloccato in un turbinio di pensieri che lo punzecchiavano appena entrava nello stato di dormiveglia. Ed ora, seduto davanti alla tazza di caffè bollente al tavolo della cucina sentiva ogni fibra del suo corpo cedere alla stanchezza. Tuttavia non era la stanchezza che infastidiva Louis quella mattinata. Da qualche mese percepiva un’asfissiante vibrazione di irrequietezza, la quale era culminata con l’incontro sconvolgente il giorno precedente.
Davanti ai fumi indiani del caffè egli non ricordava lucidamente tutti i momenti passati in sintonia con il lupo; rimembrava solamente lampi di immagini, la corsa istintiva e il respiro tambureggiante di fronte al bianco animale. L’insieme era confuso.
“Louis!”. Il giovane sobbalzò dalla sedia. Davanti a lui  si ergeva il vecchio taglialegna del paese Robert, il quale stringeva in mano un cappello sfibrato dei Cubs.
Era stupito ed imbarazzato da quella visita inaspettata. Non lo aveva sentito entrare dalla porta sul retro ed era stato colto durante la sua intima riflessione. “Wei… Ciao Robert! Non ti ho sentito arrivare. Vuoi caffè? Siediti, siediti pure”.
“Certo, poco però. Ho la pressione alta e il dottore mi ha detto che non dovrei neanche vederlo!”.
“Ti darò una benda per berlo allora!”. “Racconta! Come procede il lavoro invernale?”.
Robert si sedette con fatica, agitando il capo con fare sconfitto, “ Il lavoro? Male Louis. Male. Oramai c’è troppa concorrenza ed essa è diventata animalesca. Spietata, sia con chi il mestiere lo fa da anni, sia con gli alberi e la natura stessa”.
Risistemandosi sulla sedia, il taglialegna iniziò ad innervosirsi visibilmente; strinse le grosse mani rosse e forti ai bordi della sedia di legno scuro.
Disse abbaiando:“Non si possono tagliare alberi giovani e forti e lasciare quelli vecchi e malati. Non c’è più una logica. Forse non è mai esistita”. “No! Non così! Giovanotto mio non intendo continuare e rendermi partecipe di tale scempio”, “Ho fatto il boscaiolo per necessità, non per denaro. Chiedevo ciò che mi serviva e lo prendevo con rispetto”.
La moca del caffè fischiava da qualche minuto, ma Louis era assente. A bocca aperta non riusciva a dare forma, a dare un reale significato al discorso del suo interlocutore. Allo stesso tempo però aveva compreso l’essenza di ciò che Robert stava affermando.
“Giovanotto, la caffettiera!”. E come un fulmine Louis scattò a spegnere il fornello. Non era rimasta neanche una goccia, e la caffettiera era bruciata al suo interno, aveva quasi raggiunto il limite di esplosione. “Che coglione! Va beh… Rob te lo rifaccio, abbi pazienza!”.
“Fa lo stesso Louis, non sono venuto qui per il caffè”. Il vecchio si risistemo sulla sedia e i bordi della sedia vennero stretti ancora di più dalle grosse mani. Era venuto il momento di esporsi, di proporre. Chiese: “Hai ancora la vecchia slitta di tuo padre?”.
“Certo che ce l’ho ancora. Tuttavia è mal ridotta. Le lamine sono da sistemare e parti in legno da cambiare”. “Il freno è da rivedere e le briglie sono da ricucire”.
“Perfetta. Nessun problema. I cani?”.
“Come i cani? Intendi i miei cani?”.
“Di chi altro? Ricordo che tanti anni fa tuo padre aveva la migliore muta dell’isolato. Cavoli tuo padre ne sapeva di cani! E sembrava che conducesse un’automobile al posto di una slitta. Tutti cani obbedivano a lui e dopo lui ad Asha. Che cane stupendo! Assomigliava molto ad un lupo; occhi ghiaccio, manto bianco con rare macchie grigio chiare”.
“Sì! Che cane meraviglioso!” rispose Louis, ricordando il caldo della lingua del cane che lo puliva sempre quando era sporco o infreddolito. Ora batteva forte il cuore, ed il perché era nella compagnia e nell'insegnamento che quel cane gli aveva dato. Era cresciuto lì, in un posto sperduto tra truciolati di legno e freddo. Asha lo aveva accompagnato dall'infanzia fino a gran parte dell’adolescenza. Lo aveva seguito da qualsiasi parte, lasciando sulla neve le grandi impronte. Protetto fino al giorno in cui si imbatterono in un grizzly. Asha non arretrò di un passo e combatté fino alla fine, fino alla fuga del grizzly, fino all'ultima carezza di Louis.
“Non ho più nessun cane, già da quando mio papà è morto”, “Ma perché mi chiedi di cani e di slitte?”.
“Beh… Non sono mai stato bravo a fare i discorsi. Pensavo di partire e pensavo che tu potessi accompagnarmi in questo viaggio”.
Piccole vibrazioni risalirono lungo la spina dorsale di Louis. “In questo viaggio?”.
“Si, sei giovane. Mi potresti essere d’aiuto e io a te”.
Louis di risposta aggiunse: “Ma cosa intendi con viaggio?”, “Quanti giorni? Ti serve una mano con il lavoro?”
“Macché lavoro! Che si fotta il lavoro! Giovanotto non pensi che sei qui sulla Terra per un motivo molto più importante che spaccarsi la schiena e lavorare tutto il giorno per tutti i giorni della tua vita. Per di più,  nel momento in cui non lavori ti senti in dovere di mostrarti impegnato, di dimostrare sempre e comunque qualcosa”.
“Fai della filosofia ora? Rob, io ho bisogno di lavorare, non ho molti soldi e pochi ne avevo prima che mio papà morisse. Dimmi come potrei lasciare tutto e partire? E una volta tornato cosa potrei fare? Rimarrò indietro con tutto”.
“Cosa lasci Louis? Pensavo non avessi granché da fare qua!”. La risposta del vecchio aveva colpito inconsapevolmente la profonda incertezza di Louis, nate negli anni a seguire. Senza un posto di lavoro fisso, senza alcun legame di parentela e affettivo, senza una reale passione, se non per la natura circostante. Cosa allora lo stava facendo dubitare? Cosa lo fermava nell’arruolarsi per quel viaggio, non conoscendo né tempo, né rotta, né destinazione?
Si sedette di fronte a Rob e senza forzature e vergogna disse: “Mi blocca la paura. Ho paura di andare via e scoprire poi che la cosa giusta era rimanere”, “Ho paura di lasciare tutto”. Nel confessare tutto ciò guardò negli occhi il vecchio. Il sorriso che nacque da quel volto battuto dal tempo lo stravolse completamente. Scoprì una lacrima camminare lungo la guancia.
“Lou! È normale avere paura, assolutamente normale. Comprendi che nulla di materiale è esente dalla potente energia della paura, tuttavia se consideri tale normalità, la paura perderà potere, che sarà tuo. Con tale potenzialità potrai danzare con la paura, potrai usufruirne a tuo rischio e responsabilità. Potrai prenderla in giro. E non pensare che stia parlando di coraggio. No. E non pensare di potere cogliere tutto nelle mie parole”. Il vecchio Rob si alzò e aggiunse: “Non ti obbligo, questo no di sicuro. Fa ciò che ti senti”.
“Lo so che non mi stai obbligando”.
“Sappi che il mondo è tuo, perché io ho il mio. Ma possiamo condividerlo, fino in America del sud”.
“E cosa ci servirebbero le slitte e i cani per questo viaggio?”.
“Loui non fare il comodo, questa vuol essere un’avventura, o viaggio-avventura”, “Senza aerei, autobus, automobili, moto. Senza alcun mezzo che inquina. O a piedi, o in bici e Lou, nel nostro caso dobbiamo percorrere un lungo tratto innevato di Alaska e Canada”. A quel punto Rob tirò fuori la sua pipa e l’accese. “Tieni! Fa un tiro!”.
“Ho smesso”.
“Dilettante. Ricorda che se non hai un vizio, devi creartelo”.
“E tu ricorda di ammazzare il vizio prima che il vizio ti ammazzi!”
“Per una pipa ogni tanto. Comunque se ne vuoi sapere di più devi venire. Tu la tua slitta, io la mia”.
“E per i soldi. Io non ne ho molti. Per la slitta e cani riesco a pagare, per il dopo no. Sai che qui il terreno non si vende. Nessuno compra”.
“Non preoccuparti. Io sono vecchio, mia figlia ha la sua vita e di conseguenza a me i soldi non servono. Ti do i miei e li condividiamo, solamente se ci stai però”, “Ora non hai più scuse giovincello!”.
Era vero. Non aveva più scuse e aveva ancora paura. Che fare? Doveva e voleva decidere subito.
“Poi giovanotto, tutti gli uomini hanno un’amante messicana”.
“Non penso siano il massimo. Vorrà dire che tu prendi le messicane e le brutte e io tutte quelle belle e sorprendenti”.
“Questo sarebbe un si?” chiese il vecchio ergendosi dalla sua sedia.
“Direi di si”.
“Allora posso spiegarti cosa ho in mente. Si parte senza programma, diretti in America del sud”, “ Ti sta bene?”.

“Non lo so se mi stia bene tutto ciò. Penso non mi importi molto. Sto danzando sulla frontiera della paura e  dell'ansia”. 
                                                                                                         di Ermanno Gelain